Blog

Eventi

Rhesis La Magia della Parola (A.Lori)

Invito alla presentazione del libro di ALBERTO LORI il 3 giugno alle ore 16,30 presso il salone Innocenzo III della Rocca dei Papi di Montefiascone

Rhesis La magia della parola

Tecniche eccellenti per una comunicazione davvero efficace,
La Rondine Edizioni
con la partecipazione di
Dr. Renato Trapè delegato alla cultura del Comune di Montefiascone
Simona Mingolla giornalista
Vincenza Fava giornalista
Mauro Galeotti giornalista
Stefania Capati Presidente Tuscia Events

“C’è tanta eloquenza nel tono della voce, nell’espressione degli occhi e nell’aspetto di una persona di quanta ce ne sia nella scelta delle parole”.
FRANÇOIS DE LA ROCHEFOUCAULD

PROFILO PROFESSIONALE

Alberto Lori, speaker del giornale radio RAI, poi conduttore del Tg2 RAI; in seguito redattore del telegiornale Contatto di Maurizio Costanzo alla PIN della Rizzoli; collaboratore de’ Il Giornale dei Misteri di Giulio Brunner e di Mondo Archeologico di Mirella Rostaing Casini; ha diretto Immagine Italia, rivista trimestrale di carattere turistico; il settimanale ASI, Agenzia Sanitaria Italiana; Quasar, il primo mensile italiano di scienza alternativa. Coordinatore di Dimensione Uomo, gruppo d’informazione, divulgazione e ricerca scientifica, è giornalista freelance e voce di documentari e rubriche TV di successo come: Mixer, Ultimo Minuto, SuperQuark, Sorgente di Vita, Sfide, La Storia siamo noi, Porta a Porta, Dixit, ecc. È stato autore e conduttore dei programmi su RadioRadio Sempre di domenica e Attenti al lupo.
Diplomato Practitioner e Master advanced in PNL all’ISI-CNV di Marco Paret e in Sviluppo delle Risorse Umane all’HRD Academy di Roberto Re, si è specializzato in PNL seguendo i corsi di Anthony Robbins, di Richard Bandler, di Stephen Covey, Deepak Chopra e in psicologia quantistica con lo psicologo Ilio Torre. Libero docente di Comunicazione al Campus de’ Media organizzato dal CONI (Impara l’arte del comunicare scritta e parlata), tiene seminari su “Reading & Speaking” all’Università della Sapienza di Roma per la facoltà di “Scienza della Comunicazione” nell’ambito dei corsi d’esame di Teoria e Tecnica del linguaggio giornalistico del prof. Aldo Fontanarosa e di Economia e Organizzazione delle Imprese Editoriali del prof. Giuseppe Marchetti Tricamo e all’Università di Cagliari presso la facoltà di “Scienze della Formazione” nell’ambito del corso di Teoria dei linguaggi e della comunicazione della prof.ssa Elisabetta Gola. Ha curato e cura la comunicazione dei dirigenti, comandanti e istruttori del corpo nazionale dei Vigili del Fuoco, dei giornalisti dell’Ansa, dei piloti Alitalia. Insegna Teoria e Tecniche di Comunicazione agli allievi del corso di Giornalismo sportivo diretto da Mario Sconcerti. È docente di dizione e sviluppo di risorse umane presso l’Accademia degli Artisti di Carlo Principini e Rita Statte e la Scuola di Professione Doppiaggio. Presso l’associazione L’Archivio organizza corsi su “C come Comunicazione”. Sul sito di youtube “albertolori”, irradia brevi video di psicologia quantistica e sul sito linfa.it corsi elearning.
Ha pubblicato per RAI ERI Speaker: guida alla comunicazione verbale e Parlar chiaro: guida alla comunicazione intelligente, Manuale di conversazione: guida alla comunicazione integrale, Reading & Speaking: guida alla comunicazione efficace e senza stress. Ha pubblicato inoltre per la Rondine Editrice “Il fattore Q: un percorso quantistico di sviluppo umano” e “Psico quantum: ri-conoscere la propria essenza per plasmare il proprio destino”, [di prossima uscita per la stessa casa editrice: Parlo bene, manuale di dizione e pronuncia] per MB Editori “Effetto Quantum: come dare una svolta positiva alla propria vita” e per Bruno Editore gli e-books e audiobooks: “Voce da speaker”, “L’arte della comunicazione”, “Parla come mangi”, “Dalla Pnl alla Quantistica”, “La formula vincente per comunicare in modo eccellente”, “Riequilibra le tue emozioni”, “L’arte del discorso” e “Quantum Freedom”. Per Byou Edition, l’ebook/audiobook “Lo Specchio quantico”. Infine per RT Project, l’audiolibro “Quantum Mind”.

Note introduttive

John Wood Campbell[1] argomentava che per essere un buon scrittore di fantascienza non era necessario essere pazzo, ma di certo sarebbe stato di grande aiuto. Potrei parafrasare Campbell nell’affermare che, nel campo della comunicazione, sarebbe d’aiuto contare su una facilità di linguaggio e una buona cultura alle spalle. Senza dubbio, ciò aiuterebbe, ma non è indispensabile. Diciamo la verità: quante volte abbiamo ascoltato relatori che, forti della loro scioltezza di parola, annichilivano l’uditorio con ragionamenti astrusi, concetti involuti, argomentazioni capziose, paroloni inutili.
Converrai con me che un simile atteggiamento di terrorismo linguistico da parte di un oratore farebbe precipitare il grafico dell’attenzione del povero ascoltatore sotto zero. Non solo, il malcapitato, di fronte a tanto sfoggio di sfrontato esibizionismo verbale, si farebbe prendere dallo scoramento al pensiero di non capire un’acca di quel discorso a causa della propria inferiorità intellettuale. I paroloni del relatore assumerebbero al suo orecchio i contorni di rumori senza senso, di suoni senza significato. Ne dovremmo dedurre allora che, se pensassimo di dare autorevolezza al parlato con l’uso di parole pompose e di difficile comprensione, saremmo davvero fuori strada: il “difficilese”, sarà meglio ricordarcene sempre, è il linguaggio dei ciarlatani.
Intendiamoci: l’etimologia della radice di comunicazione è “communis”, un vocabolo “latino” che ha come significato “mettere in comune” qualcosa. Ecco quindi che, se voglio comunicare un qualunque messaggio a un gruppo di persone, ciò significa, in ultima analisi, che desidero condividere questo messaggio con i miei ascoltatori. Da ciò scaturisce un secondo elemento: se comunicare ad altri un’idea significa mettere in comune quell’idea, l’aspetto fondante della comunicazione è l’interazione tra comunicatore e ascoltatore. Porre l’accento su uno soltanto dei due termini del binomio, su chi parla e non su chi ascolta, vuol dire negare ogni fondamento alla comunicazione, che ha lo scopo invece di privilegiare il destinatario del messaggio.
In definitiva, comunicare significa trasmettere, ma soprattutto far capire ad altri il nostro messaggio. Al di là delle tensioni nervose che potrebbero rendere difficoltosa un’eventuale prestazione in pubblico — esistono, però, in questo caso specifiche tecniche per gestire lo stress nel modo migliore. Lo vedremo più avanti — è necessario imparare le regole essenziali dell’efficacia comunicativa.

Regola n. 1. Chiunque abbia da comunicare a qualcuno, sia esso un solo interlocutore o una platea di ascoltatori, una notizia, un messaggio, un progetto, un indirizzo programmatico, un’idea, deve sapere impiegare nel modo corretto le tre chiavi che aprono lo scrigno della comunicazione:
Le parole o, meglio, le informazioni contenute nel messaggio strutturato in una comunicazione verbale;
L’espressività della parola o più precisamente l’aspetto paraverbale del discorso. Ovvero, le parole espresse attraverso il timbro di voce, il tono, il volume, l’intensità emotiva, il ritmo, le pause d’intenzione e così via;
Il linguaggio analogico, trasmesso attraverso la postura, la gestualità, lo sguardo, la mimica, la prossemica, i movimenti del corpo.

Regola n. 2. Se è vero com’è vero che le parole, la paralinguistica e il linguaggio analogico sono le chiavi che aprono lo scrigno della comunicazione, è necessario non solo saperle usarle in contemporanea, ma soprattutto in maniera congruente. Ciò significa che se tu mi fermassi per strada per chiedermi una qualunque informazione ed io ti rispondessi sì in modo veritiero, ma con un tono esitante o brusco e con un atteggiamento del corpo chiuso e poco disponibile, non presteresti fede alle mie parole, anzi, girato l’angolo, nello spazio di trenta secondi, riproporresti la tua domanda a un altro passante. Questo perché ti ho trasmesso uno stato d’animo negativo in contraddizione con la veridicità della mia risposta.
C’è un altro luogo comune da sfatare oltre a quello del buon comunicatore che deve essere per forza un ottimo dispensatore di parole. Il mio paradigma di base, in questo caso, è: si può parlare come si vuole, l’importante è farsi capire. Se ciò significa da un lato mettere la museruola al proprio dialetto, a meno che non si parli a una platea di paesani, dall’altro, pur senza dover essere linguisti o glottologi, è necessario conoscere i suoni corretti dei fonemi e mantenere una proprietà di linguaggio[2].
Tra l’altro, molto spesso, nell’ambito della comunicazione, la proprietà di linguaggio sembra essere considerata soltanto un’opzione. Lasciamo da parte i gerghi delle varie corporazioni che comportano tanti linguaggi quante sono le corporazioni – Prova a parlare con un informatico e lui non potrà esimersi dal risponderti in informatichese, così come un medico in medichese, un avvocato in avvocatese e così via – Ciò che dà realmente fastidio è il cosiddetto burocratese, un linguaggio in uso nel rapporto istituzioni/cittadino tanto poco realistico da risultare incomprensibile ai più. Non è inconsueto in momenti come questi in cui le città italiane, chi più chi meno, hanno grossi problemi di smaltimento rifiuti con conseguente aumento del fenomeno del randagismo, cogliere dichiarazioni pubbliche come quella che segue da parte di assessori comunali che ammettono “l’urgenza di provvedere ad implementare i servizi a cui sono demandati gli operatori ecologici e il nucleo mobile degli operatori professionali d’igiene veterinaria”.
Certo, converrai, non è un linguaggio d’immediata comprensione. Non è più semplice affermare che, per eliminare i rifiuti e per combattere il randagismo, una delle soluzioni è di aumentare il numero degli spazzini e degli accalappiacani? D’altra parte che cosa vuoi pretendere dai burocrati? Sappiamo bene che per loro non esistono parole semplici, d’uso comune. Sembra che provino un gusto sadico a complicare il linguaggio, a innalzare steccati fra loro e la gente comune. Un esempio? Se si discute di gobbe stradali, vuoi che i burocrati le definiscano “dossi”? Per carità, per loro sono anomalie altimetriche convesse. E i tombini? Sono manufatti umani per lo smaltimento delle acque reflue.
Propugnerei una rivoluzione linguistica per non obliterare il biglietto di un qualunque mezzo di trasporto, ma semplicemente annullarlo, per non vedere più scritto bambini in situazione scolastica ma semplicemente scolari, per mettere definitivamente al bando parole come esuberi, posologie, livelli occupazionali, eventi calamitosi, verbi come inchiestare, urgenzare, ottemperare, attenzionare, interloquire con il personale preposto e via dicendo. Proporrei un premio per chi sapesse tradurre informazioni stradali come quella che ho letto all’uscita della A1 per il G.R.A. che suonava così: “Ritardo a causa di giunto ammalorato”.
E i politici? Non scopro certo l’acqua calda se affermo, e non per mero qualunquismo, che lo scopo di certi politicanti, in fin dei conti, è proprio quello di confondere le idee. Credi che una platea di casalinghe capirebbe un politichese del tipo: “L’attuale assetto politico istituzionale presuppone l’accorpamento delle funzioni e il decentramento decisionale, implementando nella misura in cui ciò sia possibile l’appianamento delle discrasie esistenti”.

Se queste sono le premesse, non possiamo poi meravigliarci di vivere nel bel mezzo di una sagra permanente di nequizie linguistiche. Basta un semplice zapping tra le varie stazioni radiofoniche dell’etere italiano per rendersi conto che il lessico di parte di italiani smaniosi d’intervenire ai microfoni delle radio vada piuttosto per assonanze che per reali conoscenze della lingua patria.

Eccone una collezione raccolta in questi ultimi mesi:
“La forza di gravidanza”.
“Questo fatto vi serva da monitor”.
“Mi ha raccontato del suo manager a tre”.
“Mi hanno abbozzato la scrocca della macchina”.
“Le ho detto che quelle calze servono a rialzare i glutini”.
“C’aveva una chioma influente”.
“Non ricorda più niente, c’ha un’amnistia”.
“Ho da pagare la ritenuta d’incontro”.
“Devo portare la filodiffusione (fideiussione) in banca”.
“Sono andato a vedere la tostatura (tosatura) delle pecore”.
Per non parlare delle “perle” lessicali dei nostri politici paesani, sindaci, assessori, consiglieri di maggioranza e di minoranza.
“Dobbiamo prendere una decisione a tamburo radente”.
“Consiglio la maggioranza di finirla di girare intorno come frati in un chiosco”.
“Facciamo un piccolo brecht”.
“La nostra politica fiscale si fonda sulla difesa dei cittadini meno abbietti”.
“La colpa è sempre dei processori (predecessori)”.
“Questa, signori, è la chiave di svolta”
“Attenzione, colleghi, non vorrei che questa delibera ci torni indietro come un bungalow”.

Il problema dell’improprietà di linguaggio, come vedi, è più comune di quanto si creda. Non c’è da scomodare il grande Ennio Flaiano con il suo “simil italiese”[3], ma certo sarebbe auspicabile pretendere proprietà lessicale almeno dai conduttori radiofonici e televisivi, i quali avrebbero l’obbligo se non altro di mantenere la purezza del linguaggio.
Per esempio, quante volte abbiamo ascoltato e anche visto scritto sui nostri quotidiani che a Tal dei Tali sono stati comminati tre anni di galera. L’uso del verbo “comminare” in questo caso è inesatto dato che, come nella sua etimologia latina, significa “minacciare”. Il codice commina (minaccia) tre anni di reclusione se si compie quel determinato misfatto. Se il reato è passato in giudicato, il giudice non commina, bensì infligge tre anni di prigione.
I colleghi giornalisti sportivi sembrano facciano grande confusione su “defatigante” e “defaticante”, utilizzati indiscriminatamente. Forse è il caso di sapere che i due aggettivi hanno un significato opposto. Il primo deriva dalla voce latina defatigāre che significa: affaticare, spossare e ha mantenuto lo stesso significato in italiano. Ne consegue che gli atleti dopo una fatica agonistica non possono sottoporsi a esercizi debilitanti come quelli defatiganti ma “defaticanti”, ovvero utili per sciogliere la fatica.
Allo stesso modo, i colleghi giornalisti sembrano confondere i significati di “espiare” e “scontare”. Il verbo espiare significa: “emendare con una pena una colpa commessa”. Il verbo deriva dal latino espiāre, composto dal rafforzativo ex in aggiunta a piāre rendere puro da piŭs (puro). Ne deriva che è poco corretto dire o scrivere che “Caio sta espiando la pena in un carcere di massima sicurezza”. La pena si sconta. La colpa si espia.
L’improprietà di linguaggio non è l’unico inquinante linguistico. Da un po’ di tempo in Italia va di moda l’omicidio legalizzato. Dovunque, nella nostra penisola, chi più chi meno si diverte a tormentare, seviziare, uccidere. La vittima? La più derelitta e inerme delle perseguitate, la compagna della nostra vita di cittadini: la lingua italiana. Senza volerlo, ma soprattutto senza saperlo, sfumature dialettali a parte, gli adulti più dei bambini martirizzano la lingua patria sfornando i più terribili strafalcioni, che hanno come unico obiettivo quello di macchiare il loro autore del delitto linguistico chiamato “fonocidio”. Purtroppo proprio chi avrebbe per contratto il compito di difendere e tutelare il purismo fonetico della lingua – mi riferisco ai comunicatori radio e televisivi – è il vero massacratore del lessico e sparge i veleni dei suoi svarioni sugli incauti ascoltatori.
Ne vuoi un esempio? A parte le difformità di pronuncia in uno stesso telegiornale tra conduttore e inviato – famose le diverse pronunce di Kòsovo e Kosòvo o Bàssora e Bassòra, Ucràina e Ucraìna, Ìslam e Islàm[4] – sapresti pronunciare correttamente i vocaboli italiani: infido, alacre, salubre, utensile, guaina, scandinavo, diatriba, solo per citarne alcuni?
Non impazzire, ti semplifico la ricerca dandotene io stesso la corretta pronuncia: infìdo, àlacre, salùbre, utensìle (come sostantivo, l’aggettivo è utènsile), guaìna, scandinàvo, diàtriba. Non meravigliarti se mi senti pronunciare in questo modo parole appena citate in qualche documentario. Mi sento obbligato a farlo perché mi hanno insegnato che un professionista del microfono è in ogni caso un modello al quale si rifà ogni ascoltatore.

Una rara foto dell’autore quando conduceva nei primi anni ’70 il TG nazionale.

Certo, tu che mi leggi, nel linguaggio comune puoi pronunciare certe parole come ti pare. Puoi dire che l’acqua evàpora al posto del più corretto evapóra, sgùaina la spada al posto di sguaìna, t’ìntimo di lasciar perdere in luogo del più corretto intìmo e via dicendo. Se ti sentissi sorpreso da queste pronunce e protestassi: “Nessuno parla così!” In parte avresti ragione. Soltanto il sottoscritto e pochi altri, ridotti alla stregua di ultimi Mohicani, usano queste forme ortoepiche. Facciamo parte di quella ormai esigua schiera di professionisti del microfono creati dalla Rai, quando la Rai si fregiava del suo ruolo storico di tutela della purezza della lingua italiana.
Con l’avvento delle tivù commerciali anche la RAI si è adeguata all’andazzo delle male pronunce. Ha rinunciato al suo ruolo di garante del modello linguistico nazionale. Pazienza, se si è costretti ad ascoltare un “inebètito” da parte di un politico ex magistrato o una ex ministra dell’istruzione pronunciare “sotto l’egìda”, il museo degli orrori radiotelevisivi prosegue con la pretesa di anglicizzare persino il greco: “claimax” invece di climax, e il latino: “aiter” invece di iter, “sarplas” invece di surplus, “midia” invece di media, “giunior” invece di iunior, “sinior” invece di senior.
Il gioco al massacro imposto alla nostra lingua deriva oggi anche dall’uso massiccio di locuzioni straniere, soprattutto, inglesi, (target, trend, look, speech, screening, welfare, spending review… chi più ne ha più ne metta) che infarciscono il lessico italico. Una volta, i cosiddetti anglicismi appartenevano al lessico degli aristocratici e degli intellettuali. Oggi, l’uso di determinate voci inglesi è diffuso anche negli strati medi e medio-bassi della popolazione. Fa senso udire un nerboruto muratore romano dichiarare che il suo target immediato è innalzare un muro di contenimento oppure sentire dire il senzatetto che il trend delle elemosine è in ribasso a causa della recessione.
Qualcuno potrebbe affermare che tutto ciò potrebbe essere definito “normale evoluzione” del linguaggio. Certamente, ma resta il fatto che il lessico italiano, a differenza di altre lingue, si è evoluto molto lentamente. Se ti capitasse di leggere un brano inglese o francese del XIII secolo, non ci capiresti nulla, per la ragione che l’inglese e il francese da allora sono molto mutati, ma se leggessi la Divina Commedia ti accorgeresti che Dante usa il 56% delle parole che usiamo tuttora.
Nel medioevo si diceva: alchìmia, filosòfia, ammaìno le vele, reclùto un esercito, gratuìto e fortuìto. Adesso, dopo molti secoli la pronuncia è mutata. Pronunciamo alchimìa e filosofìa in assonanza con le altre scienze: geografia, trigonometria, geologia, ecc. Pronunciamo: ammàino, rècluto, gratùito e fortùito.
Nonostante tutto ciò che ho affermato finora, voglio essere coerente fino in fondo. Ti dico: parla come vuoi, basta che ti faccia capire. Abbiamo detto che, in definitiva, non sono necessari facilità di parola, buona cultura e neppure un linguaggio senza inflessioni dialettali, anche se tutti questi aspetti sarebbero d’aiuto. Ciò che realmente conta è un filo rosso che unisca il comunicatore ai propri ascoltatori. Se chi parla non è in grado di creare sintonia, simpatia, in una parola, empatia, con chi ascolta, allora, credimi, non è un buon comunicatore. Come scopriremo più avanti, creare rapport con il proprio interlocutore o con il proprio pubblico è una delle tecniche vincenti della “Rhesis”, la magia della parola.

[1] Padre fondatore della fantascienza. Laureato in fisica, si distinse come prolifico autore di romanzi nel periodo d’oro della fs tra gli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso.
[2] Su questo particolare argomento se desideri un approfondimento, leggi “Parlo bene, manuale di dizione e pronuncia” di Alberto Lori e Paolo Salomone, pubblicato nel 2015 da La Rondine Edizioni.
[3] Vedi di Ennio Flaiano: “Prontuario di italiese” nel quale riferisce del linguaggio pittoresco di Peppino Amato, l’amico produttore.
[4] La pronuncia corretta è rispettivamente: Kòsovo, Bàssora, Ucraìna, Islàm.